Napoli. In una calda sera di tarda primavera e negli affascinanti e riqualificati spazi dei locali della ex Birreria di Miano, Gustavo Tambascio ritorna a Napoli, invitato per la seconda volta dal Festival Teatro Italia, e porta in scena Frankenstein, il celebre romanzo di Mary Shelley.
Suggestivo e imponente è l’impianto scenico in cui il regista argentino propone, per due ore e trenta minuti, un viaggio narrativo che si sviluppa su due binari definiti. Sul primo, intraprende un’indagine degli aspetti più intimi e filologicamente dimenticati del testo, attraverso una esatta ricostruzione del contesto storico, scientifico, politico, filosofico, culturale e socioeconomico ottocentesco. La conseguenza che ne deriva è una meticolosa analisi sul dibattito tra le teorie socio-politiche tardo-illuministiche e una lezione accurata sul naturalismo che generano, però, un percorso drammaturgico asfissiante che nega volutamente allo spettatore qualunque spazio immaginativo. Sul secondo binario, invece, Tambascio sviluppa una rielaborazione del personaggio sdoppiato della Creatura, generata per ambizione e amore morboso del padre-creatore Victor Frankenstein, e affidata all’interpretazione di due attori, ciascuno dei quali è testimone dei suoi contrasti interiori.
Dalla cornice appena tracciata, nasce una lunghissima ouverture che spicca immediatamente per il suo marcato approccio da antica accademia teatrale, ma il cui peso ricade prevalentemente sul giovane Raúl Peña, troppo acerbo nonostante le potenzialità, per riuscire a sostenere un linguaggio eccessivamente calligrafico ed estetizzante. La seconda parte dello spettacolo è invece caratterizzata da un ritmo più fluido che permette agli attori, tutti bravi e vestiti con elaborati e ricchi costumi, di sviluppare una armonia corale ed in equilibrio con le forti proposte scenotecniche esaltate da un disegno luci assolutamente degno di nota e dalle seducenti note di Wagner e Liszt.
In definitiva, si assiste ad uno spettacolo d’altri tempi e dal forte accento didascalico, che tradisce il suo testo di riferimento nella scelta di esaltarne l’accento naturalistico a danno di quello simbolico.